Sul concetto di “fermarsi”.

Alice S.
5 min readMar 18, 2020

Quando abbiamo capito che non si poteva più uscire di casa, al di là dell’ovvio sgomento e della doccia fredda data dal rendersi conto forse per la prima volta della gravità della situazione, abbiamo preso la notizia come, quanto meno, un’occasione per tirare il fiato.

Dopo “Milano non si ferma”, spot che personalmente ho odiato, manifesto di un capitalismo e di una corsa sfrenata al fare e al produrre che rappresenta in modo molto evidente la Milano che non mi piace e a cui sento di non appartenere, abbiamo pensato “ok, è davvero arrivato il momento di fermarsi”.

Ma esattamente, com’è che ci si ferma? Siamo capaci di fermarci? Stando alle notizie che riportano che, almeno a Milano, una buona percentuale di persone sta continuando imperterrita a uscire di casa, pare di no.

E al di là dell’uscire di casa, ci si può davvero davvero fermare, anche stando a casa? E cosa vuol dire fermarsi? E poi, soprattutto, per quanto tempo?

Ci ho pensato molto in questi giorni, giorni in cui approfittando del bel tempo ho spalancato le finestre della mia stanza lasciando entrare luce e aria fresca, regalando a me stessa l’illusione di essere in qualche modo “fuori”, anche quando in realtà sono “dentro”, magari uscendo — inevitabilmente in pigiama — sul mio mini-balcone al primo piano.

Per me fermarsi vuol dire davvero tirare il fiato, sospendere tutto, lasciare in qualche modo che “le cose”, invece di continuare a turbinare impazzite stritolandoci, si sedimentino e si plachino, come in una nuova dimensione in cui il tempo e lo spazio assumono significati diversi, dilatandosi o contraendosi un po’ a casaccio. E il concetto mi piace, perché lascia spazio — appunto — a nuovi modi di vivere e ai tempi — appunto — “umani” della vita.

Questa dimensione sospesa è qualcosa di completamente inesplorato per me, e probabilmente per molti altri. Abituata alla produttività del lavoro e del “fare cose”, i primi giorni sono stata colta da una sorta di euforia in bilico tra il “mi riprendo il mio tempo” e il “faccio tutte le cose che non ho mai tempo di fare”, ma dopo la prima settimana è sorta una nuova sensazione, che definirei un po’ come “vuoto cosmico”.

All’inizio ho ovviamente, come tutti, approfittato della ritrovata dimensione casalinga e di un po’ di tempo libero per sistemare tutto quello che andava sistemato. Come una matta ho iniziato a riordinare, pulire, buttare via roba inutile, passare lo straccio, disinfettare, piegare i vestiti, spostare mobili. In uno slancio di entusiasmo ho persino pulito gli specchi, le cornici, gli stipiti delle porte. Poi è arrivato il momento di rendermi conto che non ho mai imparato a cucinare, e quindi ho iniziato a cimentarmi ai fornelli, lavando verdure, sminuzzando, sbollentando, scoprendo che in realtà la mia non era incapacità innata ma semplice pigrizia. Ho anche comprato frutta e verdura, cosa che faccio di rado, cercando di modificare le mie abitudini alimentari tendenzialmente malsane. Un giorno mi sono svegliata e ho fatto stretching, cosa che non facevo da un tempo indefinito. E ovviamente ho lavorato, continuando a cercare di concentrarmi e di pensare che tutto quello che faccio in azienda sia fondamentale e necessario e che le cose, tutto sommato, almeno un po’, devono andare avanti. E ho guardato dei film, letto dei libri la sera prima di dormire, fatto innumerevoli skype call con amici, ballato in cucina, bevuto birre guardando fuori dalla finestra.

Poi non so cosa sia successo.
Forse è il pensiero che fuori, mentre noi siamo dentro, stia accadendo qualcosa di assurdo, qualcosa di inconcepibile che ci riporta inevitabilmente al concetto di mortalità, in particolare la nostra, idea che tentiamo continuamente di sopprimere e di nascondere sotto il tappeto, ma che alla fine in qualche modo ritorna sempre a riacchiapparci e farci tornare coi piedi per terra. Ci sentiamo piccoli, impotenti, incapaci di cambiare lo stato delle cose.
Forse è il fatto che dopo dieci giorni di isolamento mi manca un contatto umano che non sia mediato da una webcam o un telefono. Toccare le persone per sentire che ci sono, che sono vive, presenti nel mondo, è incredibilmente rassicurante.
Forse è il fatto che, come temevo, io non sono così in grado di fermarmi.

Fermarsi vuol dire un sacco di cose: lasciare andare, aspettare, rimanere sospesi, ma soprattutto stare con se stessi. Nel mio caso, vivendo da sola questa quarantena, stare da soli con se stessi.

Per molti è facile stare da soli con se stessi: la solitudine porta a volte a uno stato di pace e di paradossale sensazione di comunione con il mondo che è difficile ottenere altrimenti.
Per me non lo è per niente, e me ne accorgo ora mentre scrivo: sto bene da sola, ma sto bene da sola dopo che ho avuto una giornata produttiva, dopo che ho incontrato gente, condiviso i miei pensieri con altri, scambiato qualche abbraccio, guardato le persone negli occhi. Stare da sola alla fine di una giornata così mi piace molto ed è un po’ una pausa che mi prendo dalle “cose”.

Stare da sola con me stessa però, quando “le cose” sono, almeno temporaneamente, sospese, è diverso: mi fa sentire vuota, invece che piena. Non è una questione puramente emotiva, non è nemmeno una questione strettamente psicologica. Ha più a che fare con la propria identità come esseri umani. Chi sono io se non sono in ufficio a rispondere alle mail? Chi sono io se dopo il lavoro non mi bevo una birra con gli amici, o non vado al cinema con il mio ragazzo, o non vado a un concerto? Cos’è che fa di me me? In breve: la sospensione di tutte queste attività quotidiane (a parte il rispondere alle mail — giusto per rassicurare colleghi e capo se leggono — , solo che farlo da casa è decisamente diverso, ma questo è tutt’altro discorso, credo) mi ha messo di fronte a quello che sono io senza tutto quello che ho intorno. E quello che vedo è il vuoto.

La domanda che mi pongo è esistenziale, in senso stretto: non è che io sono, molto semplicemente, le cose che faccio? Sono talmente vittima di un mondo così immerso nella logica capitalistica del “fare” che ho finito per identificarmi con quello che faccio e non con quello che sono?

Il punto è che al momento, in questo qui e ora in cui mi trovo a pigiare tasti davanti a uno schermo, non ho risposte.

Quindi faccio una promessa a me stessa, per vivere questa quarantena che chissà quanto durerà ancora (e che è assolutamente necessaria per il bene di tutti, quindi sono pronta a vivere altri mesi così, e non ditemi che si tratta di un paio di settimane perché sappiamo che non è così): voglio affrontare quel vuoto e capire come riempirlo. E capire se è davvero un vuoto o se quello che vedo è semplicemente il frutto di uno shock che ha cambiato le mie abitudini e quelle di tutti in modo così radicale e improvviso.

Quindi: che questa quarantena mi sia utile e sia utile a tutti, in qualsiasi modo possibile, e che alla fine di questa sospensione ritroviamo tutti noi stessi e anche tutti gli altri di cui sentiamo la mancanza.

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Alice S.

Faccio tante cose, ma poche bene. Per lavoro gestisco progetti, per hobby mando all’aria i piani.