Cose che ho capito ultimamente

Alice S.
5 min readMay 15, 2021

Totally random, non cercate un filo logico.

altrettanto random

Le persone insicure non piacciono a nessuno.
O meglio, piacciono a chi ha la sensibilità e la voglia di stare dietro a qualche paranoia in più del normale. Tutti gli altri amano stare intorno a persone positive, ottimiste, sicure di sé. A chi non piacciono le persone che sanno chi sono, cosa vogliono e sono determinate a ottenerlo? Le persone sicure di sé non pongono problemi, le loro relazioni funzionano senza intoppi o drammi quotidiani, hanno un sacco di rapporti sani, soddisfacenti e non complicati, si godono la vita e sono di ottima compagnia. Al contrario a volte è difficile stare vicino a persone insicure il cui stare al mondo è costantemente adombrato dal peso del “non sono abbastanza”. Non tutti sono sufficientemente clementi, sensibili o solidi da accettare di avere a che fare con stati d’animo altalenanti, dubbi esistenziali e patemi d’animo, e la conclusione a cui sono giunta è che va bene così. Il mondo è bello perché è vario, ognuno decide quali fardelli è disposto a portare.

Il rapporto tra salute mentale e lavoro è ancora un problema.
Pensavo fosse una specificità del mio settore ma ormai vedo che questa magagna si è estesa a qualsiasi ambito (parlo dei lavori a Milano, può darsi che in altre città meno fissate con la produttività le cose siano diverse). Mobbing continuo, impossibilità di prendersi giorni off, paghe da fame, necessità di essere sempre connessi anche fuori dagli orari di lavoro — che puntualmente si estendono oltre le 8 ore e oltre i giorni feriali — ricatti morali, demansionamenti. Lavorare dovrebbe essere un diritto e invece diventa un privilegio di chi ha energie infinite, soldi sul conto in banca, nessun interesse per la vita al di fuori dell’ufficio.
Mantenere un buon equilibrio tra lavoro e vita privata è un salvavita.
I datori di lavoro se ne fregano della tua qualità della vita, sei tu che devi difenderla, nessuno lo farà per te.

Quando hai l’impressione che qualcuno ti stia evitando, lo sta facendo davvero, anche se più probabilmente in modo inconsapevole, e non ha senso inseguire chi sta fuggendo da te. È una perdita di tempo per entrambe le parti coinvolte e distoglie entrambi dalla ricerca delle cose giuste / persone giuste per sé.

Essere buona e passare sopra a qualsiasi tipo di sgarbo, comportamento scorretto, trattamento umiliante, al grido di “ma io sono buona e guardo queste cose dall’alto, niente mi turba” è una mistificazione del concetto di bontà. Lo dico a me stessa: buona non significa stupida. Essere buona non implica accettare di essere ferita, tentare di guardare le cose dall’alto non vuol dire non soffrire e soprattutto fare finta di essere distaccata non significa avere le fette di salame sugli occhi. Riconoscere che gli altri esercitano comportamenti egoisti o manipolatori è necessario per sottrarsi dalle dinamiche sbagliate, e dire a se stessi che si è buoni è solo un modo per non ammettere a se stessi che, long story short, ti stanno trattando di merda.
Nota a margine: essere buoni, tra l’altro, non significa necessariamente essere in grado di perdonare.

Tornare a vivere con i genitori a 33 anni non è materialmente possibile e ha ripercussioni giganti su autostima e equilibrio mentale. Unica possibilità per salvarsi: fuggire.

Avere tempo e spazio per se stessi è un altro gigantesco salvavita: i propri spazi di solitudine e i tempi dedicati a se stessi vanno difesi con le unghie e con i denti. Chi non rispetta i tuoi confini non rispetta te.

Avendo a che fare con la malattia mi rendo conto che la nostra società è ancora fissata con la retorica del malato-guerriero, coraggioso, che va premiato se non si deprime, se affronta la malattia con positività e ottimismo, se accetta il proprio destino senza paura, se non ama essere compatito. Ma andate in mona. Un malato è un malato, le malattie fanno schifo, la morte fa paura, non c’è un modo giusto o un modo sbagliato di affrontare la malattia. E chi muore non ha perso una battaglia, non è stato sconfitto: è stato tremendamente sfortunato, fine della storia.

E sempre affrontando questo tema fastidioso: la malattia, mentale o fisica, mette a dura prova chiunque, sconvolge le vite dei malati e quelle dei loro cari. È una cosa seria. Smettetela di dire ai malati “cerca di essere positivo”, “sii ottimista”. Lo dicono in molti che c’è un legame tra come si affronta la malattia e la prognosi (anche se io sono del partito de “le cose vanno come devono andare”), ma quello che state comunicando con queste frasi profonde come pozzanghere è che il malato è accettabile socialmente e affettivamente solo se e quando è ottimista e si sforza di essere positivo. Nel resto del tempo, quello in cui il malato si sente solo (perché la malattia inevitabilmente tende a isolare), perso (perché ridisegnare tutto il proprio futuro da zero non è mica uno scherzo), fragile (perché non ci si può sentire sempre forti, a maggior ragione con una malattia), il malato non merita la vostra compagnia, la vostra stima o le vostre attenzioni. Insomma: se siete amici di un malato e vi comportate così, vi conviene cambiare atteggiamento. Se siete malati e vi sentite soli, persi o fragili, è normale e non dovete colpevolizzarvi.

Essere vivi è ogni giorno un regalo immenso.

Le influencer che dall’alto delle loro migliaia di euro fatturate in adv (sempre che fatturino) o in servizi di decluttering vi fanno la predica sulla vostra abitudine di comprare fast fashion devono andare a zappare. Un conto è sensibilizzare, un conto è essere dei gendarmi della sostenibilità ambientale vessando chi i soldi per la moda sostenibile non li ha. Sempre valido il concetto del comprare meno, ma mentre noi comuni mortali siamo in grado di tirarci le mazzate sui cabasisi perché in un momento di debolezza abbiamo comprato l’ennesimo top 100% acrilico da zara, le influencer non si fanno problemi ad acquistare dalla Corea del Sud con spedizione express ogni due giorni.

Spendere 55€ di abbonamento annuale per l’app di meditazione guidata purtroppo non vi aiuterà a essere costanti nella meditazione, così come sottoscrivere l’abbonamento annuale a Mubi non vi renderà in automatico degli intellettuali. Bisogna impegnarsi molto per raggiungere degli obiettivi.

Molti uomini ma soprattutto molte donne non hanno capito che la questione “quote rosa” o “rappresentanza femminile” in ruoli di spicco, di visibilità, di potere, è solo una minima forzatura esercitata su un sistema patriarcale che per secoli e secoli non ha dato alcuno spazio alle donne. Il fatto che programmi tv (sì, parlo di Propaganda aka sagra della salsiccia), festival, panel, rassegne culturali e altri siano sotto accusa per non rispettare l’equilibrio di genere (o per negare che ci sia necessità di farlo) è cosa buona e giusta. E no, le quote rosa non ledono la qualità (esistono moltissime donne preparatissime, artiste bravissime, scrittrici magnifiche e via dicendo), e non sono un ostacolo alla meritocrazia, in un paese in cui il merito è appannaggio degli uomini.

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Alice S.

Faccio tante cose, ma poche bene. Per lavoro gestisco progetti, per hobby mando all’aria i piani.